Una modernità riluttante

di Pietro Soddu

soddux
Esponente storico dei giovani turchi e della DC in Sardegna,
ha ricoperto per sette volte la carica di presidente della Regione Sardegna.


«Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,/ le cortesie, l’audaci imprese io canto,/ che furo al tempo che passaro i Mori/ d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto /…».
Il bellissimo incipit dell’Orlando Furioso mi è venuto stranamente in mente pensando a come iniziare il discorso sullo stato attuale dei piccolissimi comuni di cui parlano Salvatore e Vincenzo Ligios e più in generale a come commentare il tempo che ha visto la Sardegna impegnata a gestire la modernizzazione (i “mori” provenienti dal mare che ai sardi “nocquer tanto”, come sostiene la vulgata che da anni domina il dibattito in Sardegna).
I libri di storia, di economia, di geografia, di sociologia, di politologia, di psicologia, di psichiatria, di musicologia e persino di gastronomia, e in generale tutti i libri che trattano i temi della modernizzazione della società sarda la descrivono come una violenta intrusione di elementi estranei al tessuto culturale, sociale e produttivo, alla quale la società ha tentato di resistere quasi sempre senza successo, soprattutto per colpa della politica.
I vari elementi della modernizzazione, soprattutto l’industria, sarebbero come i mori dell’Ariosto i responsabili di tutti i mali di cui soffre la Sardegna, compreso il processo di decadenza dei paesi di cui parla il libro. I più sconsolati commentatori della realtà sarda ripetono che la Sardegna deve tornare sui suoi passi, deve fare a ritroso il cammino percorso per correggere gli errori commessi cedendo senza reagire alle forze della modernizzazione. Solo pochi osano affermare che ogni volta che siamo rimasti indietro nel cammino della storia per paura del mare aperto la nostra condizione non è migliorata ma peggiorata.
Fermandosi a contemplare se stessi e la propria storia si evitano forse molti traumi provocati dal cambiamento, ma si aggrava la decadenza perché si rimane fuori dalla storia, fuori dal tempo, a vivere la solitudine, il rancore, i lutti e l’assoggettamento, tra le sconfitte e i lamenti per quello che potevamo essere e non siamo stati, per quello che potremmo essere se resistessimo alle influenze esterne e che invece non saremo se continuiamo a cedere. Questo modo di pensare emerge nelle parole dei sindaci e nelle fotografie contenute nel libro; ma lo ritroviamo a tutti i livelli e in tutti i luoghi della politica e della cultura. Lo troviamo negli scritti sulla questione sarda e quando sottovalutiamo che intorno a noi tutto cambia tumultuosamente e ci impone i modi, le forme, le regole e le strutture di una modernizzazione inarrestabile, “in polvere” come la definisce un noto antropologo indiano, oppure “liquida”, secondo la definizione di un illustre sociologo polacco. La condizione dei paesi di cui si occupa questo libro più che modernità in polvere o modernità liquida si potrebbe definire “modernità riluttante” oppure “tradizione in polvere” (che però è l’altra faccia della stessa medaglia).
Guardando allo stato attuale della società sarda viene da pensare che la condizione originaria della sua cultura sia non di contrastare il nuovo, ma di accoglierlo con riserva e solo temporaneamente, con l’intento di tornare non appena possibile allo stato di prima. Questa qualità, che potremmo chiamare “resilienza”, è ben diversa dalla “resistenza”.
Con la resilienza il soggetto si adatta e si conforma temporaneamente secondo le esigenze di ciò che riceve, per tornare allo stato precedente appena viene meno la forza estranea. La resistenza è diversa: essa porta a rifiutare, contrastare, opporsi, combattere per avere la meglio, a cercare di non soccombere, perché quando questo succede fa diventare tutti infelici.
È stato il carattere “resiliente” a consentire a queste piccole comunità di attraversare il tempo senza ribellarsi, senza dannarsi l’anima, anzi adattandosi alle condizioni imposte da altri, e anzi a volte assumendo le apparenze più vistose del nuovo.
Ma una volta cessata la spinta innovativa, con la stessa facilità la società sarda è pronta a disporsi secondo le tendenze prevalenti e tutto torna come prima o, se non come prima, in forme e modi compatibili con la cultura più antica e la precedente consolidata visione della società. Il cambiamento provvisorio e spesso superficiale risponde non a una convinzione ma all’esigenza di non rischiare, di non apparire troppo in contrasto con le forze dominanti o attardati in posizioni fuori del tempo.
Molti comportamenti e strutture concettuali o sociali hanno resistito; ma la diposizione prevalente della società è sempre stata caratterizzata da un atteggiamento “resiliente” piuttosto che resistente. Questo aiuta a spiegare come sia stato possibile alle vecchie categorie culturali sopravvivere persino agli assalti della globalizzazione.

II
Quelli che criticano il processo di modernizzazione, sia quello avvenuto nella seconda metà del Novecento sia quello in corso, lo dipingono come una catastrofe antropologica che ha corroso l’identità e pregiudicato gravemente il futuro della società sarda. Il contrario di quanto sostiene l’antropologo indiano Appadurai, l’autore di Modernità in polvere, il quale afferma che l’attuale processo di modernizzazione consentirebbe, diversamente da quelli del passato, di mantenere ognuno la propria identità: nessuna identità è obbligata ad assumere l’identità culturale dei paesi più evoluti, perché le tecnologie della comunicazione, lo sviluppo dei nuovi media, la crescente mobilità e altri importanti elementi dell’oggi consentono a tutti di conservare la propria cultura senza subire egemonie culturali. La nuova modernizzazione si limita infatti, sempre secondo Appadurai, a imporre le sue strutture tecniche, comunicative e strumentali, che sono totalmente indifferenti e neutrali rispetto alle diverse identità. Questo carattere neutro della seconda modernizzazione consentirebbe a tutti di entrare pienamente nella modernità senza tradire i vecchi codici, le vecchie lingue, i vecchi riti e le vecchie produzioni, le fedi religiose e tutto ciò che fa di un gruppo sociale un popolo, una comunità, una nazione.
Tutti possono entrare nella rete, usare la tecnologia, adottare le strutture finanziarie capitalistiche moderne senza dover cambiare la propria natura originaria. Questa qualità neutra della nuova modernità renderebbe più facile il compito di realizzare ciò che tutti chiedono: fermare il declino delle comunità locali, comprese quelle di cui si occupa questo libro, evitando allo stesso tempo di fossilizzarle, di museificarle, di trasformare antiche espressioni culturali in puro folclore o in anacronismi radicali come quello delle comunità Amish americane che rifiutano qualsiasi forma di progresso tecnico e continuano a vivere, pensare e produrre come se fossero ancora nel diciottesimo o nel diciannovesimo secolo.
Il carattere della seconda modernizzazione eviterebbe di volere una cosa e il suo contrario, consentirebbe di entrare nel processo con la propria anima identitaria per competere da pari a pari con le altre identità secondo le leggi della tecnica e non secondo canoni estetici, culturali, etici o religiosi imposti da altri: non essendoci più canoni dominanti, ciò che conta è la qualità tecnica, la perfezione esecutiva, l’eccellenza del prodotto e non il suo contenuto e i suoi significati valoriali. Se la sfida è sostanzialmente solo tecnica, non religiosa, non ideologica, ciò rende più semplice mettere d’accordo sostenitori radicali dell’identità e modernizzatori senza riserve.
La società sarda è in qualche modo una prova vivente di come questo possa avvenire nella vita delle comunità e soprattutto dei moderni leader che usano l’identità come espediente retorico che ingloba tutto, dalle sagre della grande tradizione religiosa (Sant’Efisio, i Candelieri, Santu Antine, San Salvatore di Cabras, San Paolo di Monti, San Mauro del Mandrolisai, la Madonna di Gonare, i Martiri di Fonni, San Francesco di Lula, i riti magici di San Giovanni e i fuochi di Sant’Antonio) ai festival di musica jazz, alle sagre turistiche, alle cortes apertas, a “Sardegna canta”, alle esibizioni dei cantanti di “Amici”, perché tutto è moderno e allo stesso tempo identitario.
Una cosa però è riconoscere che non esistono più canoni vincolanti o che la civiltà e la cultura sono tante quante sono le comunità e che non esiste più l’obbligo di adeguarsi a un’egemonia temporanea, altro è dire che non esiste uno spirito del tempo, una visione del mondo, dell’uomo e della storia, una sensibilità a temi come la natura, gli animali, la diversità delle specie, delle religioni, dei regimi politici, delle espressioni artistiche, della vita e della morte, della famiglia, della patria, delle passioni, dell’esistenza di Dio, del senso ultimo della vita, dell’eguaglianza, della giustizia sociale, del danaro, dell’essere e dell’avere, della poesia, della solidarietà e di tutto ciò che unisce e divide, che riempie di soddisfazione e o di dolore gli uomini.
Lo spirito del tempo è evidente in tutto, ma in modo più forte nel mondo dell’arte. Nella pittura, per quanto riguarda il primo Novecento questo spirito si trova in Biasi, Figari, Delitala, Dessy, Floris, Pietro Antonio Manca, i due Ciusa, Melis, Cabras e molti altri, ma se guardiamo al secondo Novecento lo spirito del tempo si trova meglio rappresentato nelle opere di Antine Nivola, Mauro Manca, Aldo Contini, Maria Lai, Rosanna Rossi e Zaza Calzia, solo per citarne alcuni.
Se parliamo della letteratura, chi può dire che la Deledda e Sebastiano Satta non siano identitari? Lo spirito del tempo della modernità è meglio rappresentato nelle opere di Sergio Atzeni o di Salvatore Mannuzzu o di Marcello Fois, di Peppino Fiori, Michelangelo Pira, Manlio Brigaglia o di Flavio Soriga, di Giulio Angioni o di Alberto Capitta, per non dire di Salvatore Satta? Lo spirito del tempo non è più quello di Deledda o Sebastiano Satta o dei murales che si vedono alle spalle dei sindaci ritratti nel libro, ma piuttosto quello rappresentato dalle opere dei più giovani scrittori e pittori, come Michela Murgia o Pastorello.
Altrettanto si dica della musica e del canto: le launeddas, il canto a tenore, il ballo tondo, le gare di poesia estemporanea sono senza dubbio identitari. Ma lo sono nel modo e nelle forme inventate con molta intelligenza e un po’ di astuzia berchiddese da Paolo Fresu, che ha risolto il problema unendo vecchio e nuovo, luoghi simbolici, monumenti archeologici, boschi ed altre espressioni artistiche del passato con la musica jazz. L’identità secondo lo spirito del nostro tempo si esprime meglio, per fare un altro esempio, nella canzone Hotel Supramonte di Fabrizio De Andrè che non in Mamoiada ses tue immaculada dei Tazenda. Infine nella moda, l’identità la troviamo certo negli antichi costumi sardi e nelle maschere, ma lo spirito del tempo è quello interpretato secondo la moda internazionale da Antonio Marras.
Perciò la temuta e inarrestabile decadenza dei piccoli centri non si ferma difendendo il valore della vecchia identità e neppure seguendo quella parte che vive lo spirito del tempo nel senso della civiltà del consumo che vorrebbe trasformare comunità vive in espressioni fossilizzate di un tempo che sopravvivrebbe in forme quasi museali. Non può quindi non apparire per lo meno strano e singolare che siano proprio gli artisti a denunciare con forza i cambiamenti e le innovazioni tecniche nei processi di produzione materiale, a non volere che lo spirito del tempo da loro interpretato influenzi anche gli agricoltori, i pastori, gli artigiani, i pescatori, gli industriali, tutto il mondo dei servizi e la qualità dei processi e dei prodotti del lavoro umano. È possibile che essi credano che una società da loro stessi guidata verso costumi di vita, preferenze e giudizi in coerenza con lo spirito del tempo, resista agli stimoli, alle domande e alle provocazioni e alle onde del cambiamento che la investono da tutte le parti?
L’idea di stare fermi mentre tutto il mondo cambia appare non solo assurda ma anche molto pericolosa per il futuro di queste comunità minori e anche per il futuro dell’intera società sarda, per salvarsi devono entrare nell’onda del nuovo tempo e cercare un approdo che salvaguardi la loro natura identitaria e allo stesso tempo eviti la fossilizzazione. Devono adottare una visione rispettosa del passato ma aperta al futuro, preoccupata della sorte del vecchio patrimonio culturale, civile e materiale: ma soprattutto devono promuovere l’ampliamento delle forme di libertà offerte dal mondo moderno e post-moderno, diventando non un soggetto inerte e museizzato ma vivo e operante, che si confronta alla pari con gli altri mondi.
Questa è la lezione che viene dall’esperienza e questo ci dicono le ragioni dell’economia, le espressioni dell’arte e le conquiste della tecnica. Tutto si tiene e si lega. Ogni cosa va esaminata in un orizzonte più largo che ci comprende e non esclude nessuno.

III
Aidomaggiore, Albagiara, Allai, Armungia, Assolo, Asuni, Baradili, Bessude, Bidonì, Birori, Boroneddu, Borutta, Bulzi, Curcuris, Elini, Esporlatu, Flussio, Genuri, Goni, Gonnoscodina, Ittireddu, Las Plassas, Lei, Loculi, Lodine, Martis, Modolo, Monteleone Rocca Doria, Nughedu Santa Vittoria, Onanì, Osidda, Pau, Pompu, Sagama, Semestene, Senis, Sennariolo, Setzu, Simala, Sini, Siris, Soddì, Tadasuni, Tiana, Tinnura, Ula Tirso, Ussaramanna, Villa Sant’Antonio, Villa Verde, Villanova Truschedu, che compongono con altri una galassia uniforme e differenziata allo stesso tempo, devono e possono essere salvati.
Per far questo occorre mescolare conservazione e cambiamento, modernità e tradizione, che come abbiamo visto non sempre sono in pacifica convivenza tra loro ma spesso, a causa di suggestioni antiche, interessi emergenti, nostalgie sentimentali, luoghi comuni e stereotipi del folclore entrano in crisi profonda come quella che avvolge molti di questi centri e minaccia di colpire l’intera Sardegna. Tutto questo richiama i giudizi che per lungo tempo hanno occupato le menti di politici e intellettuali con le metafore della coscienza infelice, della costante resistenziale, della lingua tagliata, dell’universo di senso devastato dalle forme di una modernità imposta dalle forze economiche dominanti e dai poteri statali che hanno privato le comunità del diritto di decidere il proprio destino, causando spaesamento, dipendenza, perdita di ruolo e di prospettive. Queste piccole comunità non possono rompere da sole il cerchio magico che le tiene rinchiuse e allo stesso tempo le conforta, le illude di sopravvivere e di avere un futuro che poi il tempo si incarica volta a volta di negare.
Questo raccontano le immagini che ritraggono i sindaci circondati da oggetti, murales, bandiere, elementi naturali e ambientali specifici di ciascun paese, un misto di antico e moderno ancora irrisolto, simile alla condizione sarda descritta da Sergio Atzeni, oscillante tra le antiche suggestioni nuragiche e i sogni di “bellas mariposas”, oppure tra le suggestioni di Paese d’ombre e Accabadora, tra quelle di Elias Portolu di Grazia Deledda e quelle di Ferro recente di Marcello Fois, tra quelle del canto dedicato ai rapsodi sardi da Sebastiano Satta e quelle contenute nei versi di Mannuzzu; tra quelle della Tanca fiorita di Mura e quelle dell’ultimo Francesco Masala, oppure tra gli ovili del Supramonte e le stalle tecnologiche di Arborea, tra i telai manuali di Nule e di Sarule e le sofisticate macchine tessili dell’ultima generazione; tra il cammino a dorso dell’asino e i viaggi con l’ultimo Suv supertecnologico.
Anche le immagini dei sindaci sono allo stesso tempo uguali e diverse, tutte segnate dalla stessa dominante malinconia ma anche da atteggiamenti e da atmosfere differenti e originali. A cominciare dalla prima, l’immagine del sindaco di Aidomaggiore. Una figura di donna allo stesso tempo antica e moderna; solenne, sacerdotale, quasi ieratica e fuori dal tempo, una Eleonora guerriera, giudice, legislatore e guida intellettuale e allo stesso tempo una donna moderna, emancipata e colta, una donna che vuole conoscere prima di agire, di governare e di giudicare, stimolare, confortare, incoraggiare, unire, dare senso alla vita della sua comunità e al suo lavoro di sindaco. Diverso è il senso della foto di Baradili, ritratto come se fosse un personaggio della vita agreste col grande murale alle sue spalle. L’immagine di Birori sembra un monumento nuragico come le pietre che gli stanno intorno e così anche per Goni e per Martis. Nel giovanissimo sindaco di Nughedu Santa Vittoria un richiamo all’orgoglio del cavaliere pastore che ha fiducia in un’economia fondata sull’allevamento. Onanì è la modernità scanzonata e Osidda quella responsabile ma non realizzata se non nelle forme esteriori. Entrambi comunicano un’idea abbastanza chiara della malinconia di una modernità delle forme alla quale manca l’opera, il fare, l’essere dentro la storia che cambia.
Diverso il messaggio della foto del sindaco di Setzu. Una giovane madre con il bambino in braccio offerto allo sguardo di chi legge come la vera speranza dell’agire umano e politico. Oppure più semplicemente, se non fosse lei la madre del bambino, il sindaco che mostra a tutti che la vita deve continuare attraverso i nuovi nati. La fotografia di Soddì è l’energia della giovinezza che si presenta sola in tutta la sua forza. Quello di Tadasuni, in piedi al centro della strada sulla grande diga, sembra raccontare la fine delle illusioni che avevano accompagnato la prima modernizzazione e le grandi opere frutto del progresso e della tecnica del Novecento. Lo stesso può dirsi per Elini, immobile e sconsolato in piedi tra due rotaie di una ferrovia dismessa. Infine l’immagine di Tinnura, una donna austera, forse persino troppo altera, ritratta davanti ad un murale di chiara derivazione rivoluzionaria, che sembra richiamare tutti alla forza che viene dai movimenti popolari quando questi fanno proprie le idee di liberazione e di emancipazione che hanno quasi sempre accompagnato il cammino della modernità democratica.
Tutte le foto hanno un fascino sottile e discreto, un senso mai troppo esplicito, com’è nello stile di Salvatore Ligios che rifiuta il sensazionale, l’urlo, l’immagine di rottura. Il lettore deve ricavare il proprio giudizio con la calma della ragione che non rifiuta la suggestione ma la sottopone ad un esame fondato sulla realtà, sull’esperienza e sulla storia.

IV
La maggior parte delle immagini dicono che per sopravvivere non basta diventare oggetto di curiosità e consumo turistico. Occorre produrre cultura e beni materiali, occorre essere attivi, occorre non essere solo consumatori, e tantomeno passivi. Purtroppo in Sardegna manca ancora un’elaborazione progettuale all’altezza del problema. Esistono solo vaghe proposte dirette a trasformare beni identitari in beni turistici, non in prodotti di una moderna economia dell’identità – per usare una definizione americana basata però fondamentalmente sull’identità di genere e sulla condizione sociale –, un’economia dell’identità che per nascere e affermarsi richiede studio, ricerca: richiede dalle comunità interessate soprattutto genio creativo e impegno convinto, richiede talento imprenditoriale, senso del rischio, coerenza con il senso del tempo.
Non basta richiamare saperi, sapori e aromi antichi, non basta esaltare costumi e musiche tradizionali, non è sufficiente rimettere in circolo vecchi prodotti in nuove confezioni. Occorre sempre una nuova creazione. Occorre invenzione e fantasia poetica. Al momento la linea che si sostiene non è questa, ma piuttosto quella del mercato; cioè l’idea che per risolvere i problemi che angosciano i sindaci e i loro amministrati basti seguire le sue regole elementari. Come spiegare diversamente l’assegnazione del “Sardus Pater” all’Aga Khan dopo che era stato assegnato a Giovanni Lilliu, cioè all’inventore della “costante resistenziale”? Nella seconda scelta, non si è trattato solo di confusione e improvvisazione ma di scelta consapevole di una particolare forma di economia, però senza rendersi pienamente conto che in ballo non era solo la crescita ma anche l’identità. L’assegnazione del “Sardus Pater” a Lilliu si fondava sulla difesa dell’identità attraverso la valorizzazione produttiva moderna della propria cultura e delle proprie risorse, quella all’Aga Khan sommerge il valore identitario nel grande mare del consumismo, che forse ne conserva il corpo ma certamente fa morire la sua anima. Lo spopolamento delle aree rurali e la concentrazione in grandi agglomerati urbani sono fenomeni molto diffusi in tutto il mondo, una tendenza che finora nessuno è riuscito a bloccare né tantomeno a invertire.
Il caso Sardegna non fa eccezione: ma la sua modesta dimensione lo colloca in una posizione di maggiore accessibilità a soluzioni innovative, a progetti che includano tutte le parti dell’isola nei processi di modernizzazione dell’ultima generazione, fondati cioè sulle nuove tecnologie nel campo della comunicazione, dell’energia, dell’agricoltura biologica, della ricerca scientifica, del turismo alternativo a quello balneare e dei servizi di alta qualificazione, capaci di assorbire forza lavoro limitata nel numero ma molto qualificata e molto mobile sia nella scelta della residenza che nell’impegno lavorativo, così come, sia pure in forme generiche, aveva iniziato a fare il presidente Renato Soru: cercando di salvare queste realtà non riesumando un sistema di presenza diffusa in tutto il territorio di molti servizi pubblici con i relativi posti di lavoro qualificati ma puntando sulle possibilità offerte dai progressi tecnologici in tutti i campi, dall’agricoltura all’industria, dai servizi alla ricerca e alla sperimentazione e infine anche dal turismo alternativo a quello balneare. La politica successiva non ha fatto nulla, salvo richiamare le meraviglie del mercato per un problema che non è limitato alla condizione dei circa 25.000 abitanti dei 50 paesi più piccoli della Sardegna, ma alla condizione dell’intera isola, delle sue aree rurali e delle sue aree urbane, della sua agricoltura, della sua industria e del suo stesso turismo. Ma, come tutti sanno, il mercato non basta. Occorre che la classe dirigente, a cominciare dagli intellettuali, esca dalla contemplazione inerte di se stessa e del proprio passato prossimo o remoto e abbandoni la maschera del Narciso infelice che ripete a se stesso guardandosi allo specchio che la colpa è tutta loro, tutta colpa dei mori venuti dal mare.
Per uscire dal lungo sonno degli ultimi decenni occorre una nuova visione, occorre coraggio e determinazione, occorre uscire dall’alternativa “resilienza-resistenza” e diventare fonte di energia indipendente, capace di agire senza essere costretta da altri. Occorre essere visionari, nel senso di saper immaginare un futuro apparentemente impossibile e recuperare il tempo perduto saltando i naturali ritmi evolutivi, impegnando una generazione anche prima che sia arrivata la sua ora, utilizzando quote di sovranità responsabile per cancellare per sempre l’alibi delle colpe altrui. Il futuro non si costruisce tornando al passato ma costruendo un nuovo orizzonte, seguendo una visione diversa da quella che opprime e mortifica l’oggi o lo assoggetta alla necessità di soddisfare le spinte imitative promosse dal capitalismo consumistico. Il futuro deve nascere dall’ambizione di costruire un sistema non ancora sperimentato, solo in parte ha le sue radici nel passato, ma in realtà sviluppa i suoi nuovi germogli nel tempo ancora a venire.
Per essere pienamente umani occorre una totale disponibilità a mettersi in gioco e una grande ambizione alla conoscenza e al progresso simile a quella che Dante mette in bocca ad Ulisse: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza».


Reluctant Modernity
by Pietro Soddu

soddux
A historic representative of the Sardinian “Young Turks” and the Christian Democratic party in Sardinia,
he has seven times been Chairman of the Sardinia Regional Council.


«Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, / le cortesie, l'audaci imprese io canto, / che furo al tempo che passaro i Mori / d'Africa il mare, e in Francia nocquer tanto /…» (Of ladies, cavaliers, of arms and love, Their courtesies, their bold exploits, I sing, When over Africa's sea the Moor did move, On France's realm such ruin was to bring) [Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, canto I, 1-4].
This beautiful opening to Orlando Furioso sprang to mind strangely when I was wondering how best to set out my argument on the current state of the tiny towns which Salvatore and Vincenzo Ligios spoke of and more generally of times in which Sardinia has taken up the challenge of managing modernisation - the 'Moors' who came from the sea and brought ‘such ruin' to the Sardinians as the prevailing clichés dominating the debate in Sardinia would have it.
Books on history, economics, geography, sociology, politology, psychology, psychiatry, criminology, musicology and even food and in general all the books which deal with modern themes in Sardinia describe it as a violent intrusion of bodies which are foreign to the social and productive fabric, intrusions which Sardinian society has almost always failed to resist successfully because of its politicians.
Factors in modernisation such as Ariosto's Moors who came in from the sea are thus responsible for all the ills which afflict Sardinia.
The gloomiest commentators of the Sardinian context repeat in chorus that Sardinia must retrace its steps, re-examine the route it has taken and correct the mistakes it has made in giving way to modernity.
Only a very few have dared to point out that remaining a step behind in the march of history and contrasting modernisation for fear of the open sea, ignoring the cry of the mermaid tempting us to follow her into the unknown, far from resolving the crisis actually worsens it.
If we allow ourselves to stop here and look inwards at ourselves and our history, the negative effects of change will certainly cease but so will the advantages it brings.
Not women, lovers, knights and bold exploits but solitude, bitterness, grief, subjection, defeat, lamentation and more lamentation for what we could have been and are not, for what we could be if we resisted outside influences and would not be if we give way as we have to date.
This way of thinking reverberates in the words of the mayors in this book but we find it at all levels and places in politics and culture, in writings on the Sardinian question which ignore the fact that everything is changing stridently all around us and that this, whether we like it or not, imposes the methods, forms and rules of inexorable modernity on us, 'in dust' as a well-known Indian anthropologist has defined it [Arjun Appadurai, Modernity at large, Rome, Meltemi 2001] or 'liquid' according to the definition of a celebrated Polish sociologist [Zygmunt Bauman, Liquid Modernity. Cambridge: Polity , 2001].
Rather than at large or liquid modernity, the attitude of the towns which the present book deals with could be called reluctant modernity or rather dusty and broken traditions which, at the end of the day, are two sides of the same coin.
Perhaps this derives from the original quality of Sardinian culture, from a primal, ancient and profound quality which prompts Sardinian society to avoid opposing the new but to accept with reservations and only temporarily whatever changes come from outside without making them their own and with the intention of turning back the clock as soon as possible.
This quality, which we could call 'resilience' is very different from what is generally called 'resistance'. Resilience involves temporarily adapting and conforming to the demands of what we receive in order to go back to our previous condition as soon as the force of the foreign body is weaker.
Resistance, on the other hand, refuses, fights against, opposes, battles to get the better of the situation, tries not to succumb and when this happens it makes everyone unhappy.
Perhaps it is their resilience that has enabled the small communities we are talking about to move through history without rebelling, without making life impossible, adapting to the conditions imposed on them, taking on and going along with their most obvious trappings.
Their social structures, rules, habits, customs, values, community laws, action and judgements, everything that has taken shape over time, has remained and adapted without fighting against the forces of change, and those forces which require obedience in particular, even when these have contrasted with the time worn beliefs, life styles and actions of the various communities.
But once the innovative spirit comes to an end these communities are ready to conform easily to whatever system prevailing tendencies dictate, everything goes back to how it was or rather not quite how it was but to forms and systems which are compatible with the most ancient cultures and past consolidated visions of society.
Temporary, often superficial change is a response not to convention but to the need not to risk, not to appear to be going against dominant forces to too great an extent, not to be too out of step with the times, too anachronistic.
A great many behaviours and social or conceptual structures need exploring further but the general social tendency towards a resilient rather than resistant approach is clear and explains how it has been possible for the old forces, however weakened, to survive the onslaught of globalisation which has left no corner of the globe untouched including our own.

II
Those who have criticised the modernisation process, both in the past and in the present, argue that it destroys identity and homogenises everything.
Indian anthropologist Appadurai has argued, to the contrary, that current modernisation processes allow each of us to retain our own identities to a greater extent than those of the past because no identity is obliged to take on those of more evolved countries but can remain itself because the new communication technologies and the development of new media allow us to preserve our own cultures, they do not force us to integrate with the bearers of cultural hegemonies which no longer exist.
New modernisation limits itself to imposing its technical, communicative structure and tools which are totally indifferent and neutral to the various identities.
This neutral character of the second modernisation allows us all to embrace the new modern world wholeheartedly without betraying its old identities, codes, languages, rites, production, religious faiths and everything else which makes a social group into a people, a community, a nation.
Everyone can get onto the web, use these technologies, adopt the modern structures of financial capitalism without having necessarily to change their true natures.
This neutral quality of new modernity facilitates the task of halting the decline and disappearance of many regional and local communities including those which this book . It can avoid simultaneously fossilising them, making them into museums, transforming ancient cultural forms into pure folklore or radical anachronisms such as that of the American Amish communities which refuse technical progress in any shape or form and continue to live, produce and think as if they still lived in the eighteenth and nineteenth centuries.
What many of the advocates of identity want is to have their cake and eat it, they want to enter the modern world without giving anything from the old world up and they want to sidestep the uphill task involved in subsuming one's identity into the new world in order to compete on an equal footing with all the other identities according to the aesthetic, cultural, civil and ethnic canons of today and not yesterday.
Some also argue that there are no longer universally accepted canons and that it is therefore only technical quality and perfect performance that counts now, not contents and value systems. This is happening in both material and immaterial ways and allows us to behave with respect to each identity.
The challenge then is primarily technical rather than religious and ideological just as international and our own experiences have already shown us.
Sardinian society is, in fact, an important case in point in some ways, living proof of just how fluid and undefinable the identity paradigm is. This is often an all-encompassing rhetorical expedient from popular festivals to the great religious tradition (Sant’Efisio, the Candelieri, Santu Antine, San Salvatore di Cabras, San Paolo di Monti, San Mauro del Mandrolisai, Madonna di Gonare, Martiri di Fonni, San Francesco di Lula and all the other celebrations in the name of St. John and St. Anthony on the island), jazz and tourist festivals, cortes apertes, Sardegna Canta and the performances of the singers promoted by Amici - everything is modern and at the same time part of our identity.
It is one thing, however, to recognise that binding canons no longer exist, that there are a multiplicity of civilisations and cultures and that there is no obligation to conform to temporary hegemony and fashion, that a tolerant, respectful approach which is inclusive of all identities and cultures is right. It is quite another to say that a spirit of the times, a vision of man and history, a sensibility to themes like nature, animals, the diversity of species, religions, political regimes, artistic expressions, life and death, the family, nation, honour, passion, the existence of God, the meaning of life, equality, social justice, money, life and possessions, poetry, solidarity, openness and everything that unites and divides us, which gives a sense of satisfaction or pain, do not exist.
If we look at modern painting we find identity magnificently expressed in the works of the greats of the twentieth century - Biasi, Figari, Delitala, Dessy, Floris Pietro Antonio Manca, the two Ciusas, Melis, Cabras and many others - but if we are looking for the spirit of today's times Antine Nivola, Mauro Manca, Aldo Contini, Maria Lai, Rosanna Rossi and Zaza Calzia, to cite but a few, are more representative.
If we look at literature, would anyone claim that Deledda and Sebastiano Satta are not part of our identity? Atzeni is also part of our identity, both the Atzeni of Passavamo sulla Terra Leggeri and that of Bellas Mariposas or Il figlio di Bakunin just as Marcello Fois, Benvenuto Lobina, Francesco Masala, but also Michela Murgia, Flavio Soriga and many others are.
The spirit of the times is no longer that of Deledda and Satta or the murals behind the photos of the mayors in the book but rather that of the young.
The same could be said of music and song: launeddas, canto a tenore (polyphonic singing), traditional Sardinian folk dance the ballo tondo and impromptu poetry contests are all undoubtedly part of our identity. However, it is the methods and forms invented by Paolo Fresu bringing together the old and the new, symbolic places and archaeological monuments, forests and contemporary art forms in jazz concerts and by other great international artists which best express our identity together with the spirit of the times.
Just as, to use another example, we could say that Fabrizio De Andrè's Hotel Supramonte represents us better than Tazenda's Mamoiada ses tue Immaculada does.
To return to the theme of the small towns and their much feared and inexorable decline, I would argue that the value of our past identity cannot prevent this on its own. It needs bringing up-to-date by means of the spirit of the times to avoid these towns becoming consumer objects, fossilised expressions of an age which no longer exists, museum expressions of the past.
Staying still while the world around us changes under the driving force of this second modernisation is not only absurd but also very dangerous for the futures of these communities. We need to ride the wave of the new times in order to guide the ship of these communities towards a harbour which can protect their identities and, at the same time, avoid fossilisation. We need to adopt an open approach, think of our history but also of our future, our freedom, of our cultural, civil and material heritage within the modern and post modern world. We must see our communities not as inert, museum objects but as living and working for us and others, on a par with other communities in the world which are bearers of other codes.
This is the lesson that experience teaches us and this is what economics, art forms and politics dictates. Everything is linked. Everything is part of a wider world which encompasses us and excludes no-one.

III
Aidomaggiore, Albagiara, Allai, Armungia, Assolo, Asuni, Baradili, Bessude, Bidonì, Birori, Boroneddu, Borutta, Bulzi, Curcuris, Elini, Esporlatu, Flussio, Genuri, Goni, Gonnoscodina, Ittireddu, Las Plassas, Lei, Loculi, Lodine, Martis, Modolo, Monteleone Rocca Doria, Nughedu Santa Vittoria, Onanì, Osidda, Pau, Pompu, Sagama, Semestene, Senis, Sennariolo, Setzu, Simala, Sini, Siris, Soddì, Tadasuni, Tiana, Tinnura, Ula Tirso, Ussaramanna, Villa Sant’Antonio, Villa Verde, Villanova Truschedu - this homogeneous and, at the same time, diverse galaxy can and must be saved.
To do this we need to carefully bring together conservation, change, modernity and tradition which are currently not comfortable bedfellows because of ancient ideas and emerging interests, sentimental nostalgia, commonplaces and the stereotypes of folklore.
The subject of small towns and the fate of their inhabitants brings to mind the illusions which have long occupied the minds of intellectual politicians with the metaphors of the unhappy conscience, constant resistance, the severed tongue, the universe of the senses devastated by the forms of a modernity forced on us by dominant economic forces, state powers which have removed the rights of communities to decide their destinies with consequent feelings of alienation, dependence, autonomy, loss of role and future prospects.
These small communities cannot break the magic circle which imprisons, comforts and deludes them about a condition and future which are not real and that time proves wrong every time on their own.
Their story is told in images here: faces, objects, murals, flags, natural and environmental elements, an as yet unresolved mixture of ancient and modern similar to the one described by Azteni who alternated between ancient nuragic evocations and the dreams of Bellas Mariposas or between Paese d’ombra and s’Accabadora, between Grazia Deledda's Elias Purtolu and Ferro Recente by Marcello Fois, the Sardinian rhapsodies of Sebastiano Satta and the verses of Mannuzzu in the Mura flowerbed and lastly Francesco Masala between the Supramonte sheep folds and the technological cattle sheds of Arborea.
Survival is not about becoming objects of curiosity and tourist consumption. We need to produce culture and material goods, we need to be active, we need not to be consumers nor to remain passive consumers.
In this sense, any planning development is entirely absent. There is not even a tentative proposal to transform identity heritage into modern goods. Living in and affirming a modern identity economy - this is my name for an American definition based fundamentally on gender and social condition identity - requires study and research and, above all, creative genius and the full commitment of the communities themselves. It requires talent, ability to risk, coherence with the zeitgeist of the time.
Recalling ancient knowledge, tastes and aromas is not enough and neither is exalting local costumes and music. We need to create afresh if, that is, the identity which is spoken of with such emphasis is still capable of invention and poetic fantasy. There are certainly those who do not agree and believe that it is enough to follow the market. They know what they are doing.
How else can we explain assigning the Sardus Pater to the Aga Khan after it was assigned to Giovanni Lilliu? This is not simply a question of confusion and improvisation but rather of a choice which sees in the forms of a particular type of economy the solution to all ills not just of development and growth but also of identity.
These small communities risk being swept into a vortex which will drag both them and their identity values into the deep sea of speculation which will preserve their bodies but leave their souls to die.
The tendency to rural depopulation and the growth of the great urban agglomerations are phenomena which no-one has as yet managed to block, much less reverse in any part of the world.
And Sardinia is no exception. Its modest size makes it more easily accessible to innovative solutions, allows for the realisation of projects which include these areas in last generation modernisation processes based on new technologies in the fields of communication, energy, organic agriculture, scientific research, alternative and seaside tourism, highly qualified services, a work force absorption capacity which is numerically limited but highly qualified and mobile both in terms of residence and work ethic.
To think of saving such towns by dusting off old proposals linked to a system involving the widespread presence of a great many public services which offered skilled employment would appear no longer to be possible.
We need to focus on the potential offered by technological progress in all fields, both productive ones like agriculture and industry as well as services, research and experimentation.